L’ «Ave Maria » nel segno notarile di ser Tommaso da Montemagno di Pisa

Nelle pergamene medievali italiane la sottoscrizione del notaio fu essenziale per convalidare giuridicamente le transazioni contenute. Si poteva farla attaccando (raramente) un sigillo o, in fondo alla carta, con l’apposizione a penna del “signum notarii” (la maggioranza dei casi).
Il segno era seguito dall’ “ego” (io), dal nome e “prenomen” del funzionario rogante, dalla citazione della fonte della sua autorità (imperiale o apostolica) e dalle parole “scripsi”, rogavi, interfui” eccetera.
Il segno è oggi argomento di studi e di raccolte, utili ad esempio a risalire alla datazione di un documento poco leggibile. Appare a volte elegante e ben disegnato, modesto e affrettato, corto o lungo, a colonna, con ghirigori, con la croce in alto sopra una teca, fatto a stella e altro ancora ...
A volte è anche artistico e originale, come quello del notaio pisano ser Tommaso di Salvione di Mannello da Montemagno. Il segno appare infatti formato da due colonnine e, sotto una crocetta, da un ‘piano’ contenente le parole “Ave Maria”.
È un “simbolo parlante” di un’intenzione e/o di una fede: ovvero ‘spiega’ che ser Tommaso esercitava la sua professione o metteva la carta sotto l’insegna, la protezione o il riferimento alla Madonna tramite la sua preghiera più famosa.
In verità non è raro trovare un Ave Maria nel testo di un atto notarile medievale. Ne scrisse il padre Raffaele M. Taucci, osm, citando tra gli esempi, il testamento a Firenze nel 1323 di Gasdia degli Adimari, la quale impose che l’atto, per essere valido, dovesse recare scritta per intero l’ Ave Maria.
... Nel testo ... ma nel segno di un notaio il titolo della preghiera è davvero raro se non unico.

Le notizie che illustrano la vita di ser Tommaso da Montemagno non spiegano direttamente il motivo, se non quello della devozione personale, per cui volle usare l’Ave Maria nel suo segno. Nella prima metà del trecento visse nella parrocchia di San Martino alla Pietra (presso il lungarno Pacinotti), appartenne a una famiglia di ricchi commercianti e prestatori, non fu un letterato e non ricoprì ruoli pubblici di rilievo in città (o almeno non ne ho trovati). Rogò tra il 1326 e il 1347 comuni atti di prestiti e qualche volta fece da procuratore o da testimone in certe transazioni riguardanti artigiani.
Tra i suoi familiari, il nonno Manno, detto Mannello, figlio di Iacopo di Giusto da Montemagno, esercitò l’arte del vinattiere con il parente Iacopo di Salvo in una bottega ai piedi di una torre che era in parte dei Sismondi, sempre nella parrocchia di San Martino alla Pietra.
Salvione, figlio di Mannello e padre di ser Tommaso, proseguì il medesimo commercio. È documentato nel 1312 proprio come iscritto all’arte del vino la cui “curia” aveva sede nella casa degli eredi di Guido Pancia nella vicina parrocchia di San Clemente.
L’insieme dei parenti e collegati – la cosiddetta consorteria medievale –, come si può vedere, fu occupata a mantenere il commercio di un prodotto allora indispensabile e redditizio, associato, tramite il trasporto marittimo, anche ai vini pregiati dell’Italia meridionale e del Nord Africa. Salvaguardò per questo i propri interessi formando una ‘cerchia’ che in alcune carte appare compattarsi nel bisogno. Ed è forse a questa che si può fare indirettamente un riferimento per la devozione e l’ Ave Maria di ser Tommaso.
In particolare il socio del nonno Mannello e del padre Salvione, Iacopo (detto anche Puccio o Puccetto) di Salvo vinaio, fu uomo di una certa capacità e della generazione impavida che affrontò i nemici alla Meloria per poter praticare il commercio marittimo senza pericolo. Prigioniero a Genova dopo la sconfitta, fu riscattato nel 1291 con lo scambio di un detenuto di Sestri di ‘proprietà’ di un pisano e, a sua volta, nel 1294 aiutò Rosso Buzzacarini dei Sismondi a alleviare la detenzione genovese del parente Matteo. Provò in anni più tranquilli forte e devota affezione alla chiesa di Santa Caterina dei frati Predicatori, nella quale dispose di far fare dopo la sua morte una cappella con un altare.
Ebbe dei figli e tra questi Sismonda sposò il notaio Oliviero Maschione, figlio di Michele di Bandino che fu anch’egli prigioniero e morì a Genova dopo la Meloria. Oliviero visse nella parrocchia di San Simone al Parlascio, fu l’esecutore testamentario del suocero nel 1325 e in seguito si occupò dei beni e dei traffici dei cognati eredi di Iacopo: Ceo “mentecatto”, Salvo che fu notaio e Andrea, vinaio come il padre, ma deceduto abbastanza giovane nel 1340.
Oliviero fu anche – e questo è l’indizio più consistente per comprendere i sentimenti religiosi nella Pisa del tempo e come l’ Ave Maria di ser Tommaso fosse da attribuire anche alla sua ‘cerchia’ – un prestigioso cavaliere della Vergine Gloriosa o frate Gaudente. Ovvero appartenne a un ordine di ‘monaci guerrieri’ istituito a Bologna nel 1261, affine ai Templari e dedito alla preghiera e alle opere benefiche. In virtù del suo status ricoprì l’incarico di rettore dell’ospedale di San Ranieri di Livorno e fu benefattore dei monasteri domenicani di Santa Caterina, di Santa Croce di Fossabanda e di San Silvestro tutti di Pisa.
Oliviero ebbe due figlie: Piera che sposò Matteo di Mosca e e Caterina monaca in San Silvestro. Morì nel 1348 al tempo della grande peste, dopo aver fatto scrivere un testamento rimasto tra gli atti più significativi di Santa Caterina*.
Con la sua scomparsa e con quella di Iacopo da Montemagno, va detto, si assottigliò un gruppo importante di pisani che furono attaccati alla patria e insiemeagguerriti commercianti e uomini di cultura e di fede.

* vedi anche il mio Oliviero Maschione notaio e frate Gaudente di Pisa tra la Meloria e la grande Peste ..., 2022.

Paola Ircani Menichini, 23 novembre 2023.
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